L’estremismo modaiolo è in crisi Forse ha vinto, certo ha stancato.
Non vale più la minaccia di lasciare Milano, dopo il trionfo di bandiere arancioni e il coro di Bella ciao che hanno festeggiato lo scorso maggio il nuovo sindaco Giuliano Pisapia. Vittoria illuminata dalla «luce rosa sulla facciata del Duomo»: così scriveva Roberta De Monticelli che oltre a essere filosofa morale è anche poetessa. Non vale più la minaccia di lasciare l’Italia, dopo il governo tecnico e il sobrio cotechino natalizio del Presidente del Consiglio Mario Monti, «il nonno che dice le cose giuste per il futuro». Contrordine compagni, si resta per applaudire il nuovo corso. Ha vinto l’Italia che piace ai radical chic: non fa figuracce all’estero, se tira tardi la notte è per leggere Kant. Le trasmissioni televisive «contro», sempre a rischio di chiusura e di censura, dovrebbero godersi la vittoria. E invece no: gli spettatori calano, lo share diminuisce (o comunque non decolla). Le liste dei molti motivi per andarsene e dei pochi per restare andrebbero rifatte da cima a fondo, ma nessuno ha davvero voglia di sobbarcarsi l’ingrato compito. Fabio Fazio e Roberto Saviano con prontezza annunciano un cambiamento di rotta: il prossimo format — sempre con titolo rubato alle canzonette, Ma l’amore no — andrà in onda a maggio — al Salone del Libro di Torino. Messo tra parentesi l’antiberlusconismo militante, trovano accogliente riparo nei versi di Eugenio Montale: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe». All’ultimo raduno di «Libertà e Giustizia» — il 12 marzo scorso a Milano, in occasione del decennale, presenti Umberto Eco, Lella Costa, Gustavo Zagrebelsky — il nuovo manifesto «Dipende da noi» non ha bucato lo schermo. Erano più trascinanti i tredicenni che salivano sul palco leggendo parole altrui contro il regime. Serena Dandini con The Show Must Go Off e Daria Bignardi con Le invasioni barbariche si ritrovano spiazzate. Gli ospiti della compagnia di giro celentaneggiano e perdono mordente. I radical chic si aggirano smarriti: senza un nemico da combattere rischiano la fine dei panda, e non si capisce quale Wwf li possa salvare dall’estinzione. Tra le vittime del nuovo corso, un paio di romanzi che per spirito del tempo (e un po’ di pubblicità gratuita) puntavano sull’abbattimento del tiranno. Rapito con nome e cognome da unmanipolo di vecchietti in La banda degli invisibili di Fabio Bartolomei (e/o), sequestrato e interrogato dalle Nuove Brigate Rosse in L’uomo con il sole in tasca di Cesare De Marchi (Feltrinelli). Entrambi superati dagli eventi, andranno a fare compagnia sugli scaffali a L’intransigente di Maurizio Viroli, che vorrebbe cancellare con un colpo di spugna due realistici resoconti del mondo in cui viviamo: Il legno storto dell’umanità di Isaiah Berlin e La favola delle api di Bernard de Mandeville. Il primo prende spunto da una frase di Kant permettere in guardia dalle teorie che intendono risanare l’umanità raddrizzandone a forza le storture. Il secondo mostra i pericoli e la miseria di una società totalmente virtuosa. Riciclarsi è difficile, con così breve preavviso. Anche un esperto cacciatore di radical chic come Tom Wolfe — suo il reportage che nel 1966 coniò la definizione, dopo un party in casa del compositore Leonard Bernstein, ospiti d’onore le Black Panthers — avrebbe qualche difficoltà a reperire i nuovi modelli. «Non leggo i libri in classifica» e «non guardo la tv, neanche ne possiedo una» sono stati per anni due capisaldi del radical chic pensiero. Né l’uno né l’altro sono più praticabili, ora che tra i bestseller ci sono le poesie di Wislawa Szymborska e che i tweet hanno sottratto il Festival di Sanremo alla categoria del nazionalpopolare. Impossibile trovare rifugio nel catalogo Adelphi, che oltre alla poetessa polacca premio Nobel stamandando in libreria tutto Ian Fleming e il suo agente 007 con licenza di uccidere. Si comincia a maggio con Casino Royale. Lo smarrimento è palese. Giorgio Faletti si presenta alle Invasioni barbariche in veste di scrittore martirizzato dai critici, invitandoli a fare ammenda delle loro colpe «come la Chiesa cattolica ha fatto per la pedofilia». Lo spettatore progressista va in confusione. Da anni ascolta e ripete come un mantra che «la qualità letteraria mal si concilia con le alte tirature», che l’industria editoriale sta scadendo perché insegue successi facili, che i libri si vendono solo se l’autore è un personaggio. D’accordo sul contrordine (siamo dell’idea che i romanzi vadano giudicati alla prova della lettura, vendere molte copie non è un’onta). Meno sull’apparentamento con Totò. Fu negletto in vita e riconosciuto come un genio con colpevole ritardo, ma oltre agli «ingiustamente dimenticati» esiste una nutrita schiera di «giustamente dimenticati». E chi è stato celebrato al suo primo libro come «il più grande scrittore italiano» non può mettersi in prima fila con la manina stesa quando si distribuiranno i risarcimenti. Dai salotti tv ai salotti e basta, mancano eroi da celebrare. Il movimento degli studenti ha prodotto un giovanotto impresentabile: braghe scivolate sui fianchi, cameretta con il poster in casa dei genitori, eloquio imbarazzante, un estintore da gettare sull’incendio come fosse una coperta. Occupy Wall Street ha collezionato le più banali e generiche parole d’ordine mai ascoltate, contro i profitti delle multinazionali. Apple esclusa, naturalmente, perché tutti abbiamo un iPhone in tasca, e certo non rinunciamo al giocattolo dopo aver letto delle condizioni di lavoro in fabbrica. Neppure i «No Tav» fanno al caso. Son serviti più che altro a mostrare la preveggenza di Pier Paolo Pasolini e della sua poesia sugli scontri a Valle Giulia: «Sto con i poliziotti, perché i poliziotti son figli di poveri». Sconfessati perfino da Susanna Camusso, che come feticcio da adorare preferisce l’articolo 18, gli anti-moderni hanno ormai dalla loro soltanto Beppe Grillo. «Una gioiosa portatrice di polline socioculturale». Così Jonathan Franzen, in Libertà, inchioda alla sua radicalchiccheria Patty Berglund. Lasciando già intravedere le prime crepe nell’edificio. Polline da diffondere, quando gli anni passano e i figli crescono, ne resta poco, altre sono le urgenze da sbrigare. Qualcuna seria. Per esempio: «Come reagire quando un povero di colore ti accusa di avere distrutto il suo quartiere?». Qualcuna più futile: «I boy scout sono accettabili da un punto di vista politico?», «Il bulgur è davvero indispensabile?». Mai scrittore è stato più crudele nel descrivere gli animalisti che per proteggere gli uccelli pretendono i gatti con la campanella al collo, se proprio devono uscire in giardino. Bastano queste perfidie, per di più concepite da uno che coltiva l’insana passione per il birdwatching, e gli perdoniamo volentieri la retromania di certe recenti dichiarazioni. Del resto, qualche anno prima di scrivere Le correzioni, Franzen aveva annunciato a gran voce la morte dei romanzi che mettono d’accordo pubblico e critica. Il suo stesso trionfo, con un libro uscito in libreria alla vigilia dell’11 settembre, basta per screditarlo come profeta di sventura. L’ultima guerricciola dei radical chic contro la pop culture ha avuto per bersaglio le gag dei Soliti idioti, coppia di comici formata da Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli. Concita De Gregorio, in un articolo su «Repubblica», li ha bollati come cretini baciati da incomprensibile successo. Strappandosi le vesti per il pessimo gusto dei giovani d’oggi: irresistibile tormentone con cui ogni generazione, passato il momento suo, certifica la propria superiorità. L’invito alle Invasioni barbariche e poi al Festival di Sanremo, non ha aiutato a far pace. Anzi: finite le polemiche sulle parolacce, è scattato il dibattito: «È lecito fare battute sugli omosessuali?». Il fatto è, però, che I soliti idioti non facevano battute sugli omosessuali. La gag incriminata, assieme a molte altre del loro repertorio, prende di mira i radical chic (per questo il palco di Sanremo non era il luogo adatto). Su chi sente il bisogno di ripetere, anche quando il contesto non lo giustifica, «sono omosessuale». E se l’interlocutore dice «vabbè, ma che c’entra, stiamo parlando d’altro», ripete il concetto fino allo sfinimento. Quando il destinatario della provocazione perde la pazienza, lo si accusa di discriminazione e omofobia. Bastava guardare lo sketch per capirlo. Quel che è successo dopo i funerali religiosi di Lucio Dalla — dal violentissimo outing di Aldo Busi alle accuse di ipocrisia lanciate da Lucia Annunziata — mostra che I soliti idioti avevano colpito nel segno. Con sufficiente anticipo, e sufficiente precisione, per guadagnarsi un posto tra chi fa satira per davvero, guardandosi attorno senza riciclare antichi sketch con Moana Pozzi (come Sabina Guzzanti, che in Un due tre stella, da giapponese rimasta a combattere nella giungla, non rinuncia né a Berlusconi né al botulino). E a proposito: sembra incredibile che nessun comico di professione abbia colto e rilanciato l’autogol di Pierluigi Bersani: «Mia figlia preferisce la Fornero a Belén Rodriguez», come se la figlia non avesse parole sue per esprimersi su un argomento tanto scottante. Comunque, ne riparleremo quando un maschio, alla domanda «Preferisci fare il calciatore o l’impiegato di banca?» risponderà «voglio andare in banca». Le parole d’ordine dell’élite illuminata vanno in confusione, a distrarsi un attimo si resta spiazzati. Per mesi abbiamo sentito le lodi del burlesque: spogliarsi serviva a riappropriarsi del corpo e della seduzione, perfino l’Arci organizzava appositi corsi. La ricchezza era sospetta e intrinsecamente volgare. Ora bisogna rivestirsi, mentre i miliardi guadagnati si possono tranquillamente esibire. Se uno aveva un libro nel cassetto, lo mandava a un editore. Stamparselo da soli era riconoscere che il manoscritto valeva poco o niente. Ora autopubblicarsi è ilmassimo dello chic: dimostra che abbiamo capito la teoria della «coda lunga», e non ammettiamo intermediari tra noi, il milione di copie, i cospicui diritti d’autore. Anche i romanzi pubblicati di recente dalla vecchia e cara editoria tradizionale segnalano un declino dei radical chic. Eravamo abituati a scrittori e architetti, perlopiù in crisi di mezza età. Scopriamo parecchi portinai e donne di servizio. Non accade soltanto in Le parole perdute di Amelia Lynd (Feltrinelli), ambientato negli anni 70: la storia di Elvira, custode del palazzo vessata da inquilini pettegoli e litigiosi, e di una misteriosa nuova arrivata che occupa il quinto piano. Gli altri sono domestici e portinai d’oggi, raccontati con realismo. L’unico che un po’ sfugge, e ricorda i gusti sofisticati della concierge di L’eleganza del riccio di Muriel Barbéry — zuppa di cavolo per non dare nell’occhio, una passione segreta per le raffinatezze del Giappone, bastano per l’etichetta «bestseller di qualità» — è il portiere di notte in La generazione di Simone Lenzi (Dalai): ha scelto il mestiere perché ama leggere. Nel romanzo Caino di Paola Capriolo (Bompiani), Milagro è una domestica sudamericana quasi analfabeta. Chiude la serie Anna, che fa le pulizie in Sottosopra di Milena Agus (Nottetempo). E il portinaio Pietro, curioso di appartamenti altrui nel bellissimo romanzo di Marco Missiroli Il senso dell’elefante, appena uscito da Guanda. Il lettore tira un sospiro di sollievo. Forse è finita davvero, i radical chic sono sul punto di sparire.