“Che cos’è la vita? Lo sfavillare di una lucciola nella notte, il respiro sbuffante di un bisonte d’inverno, la breve ombra che scorre sopra l’erba e si perde dentro il sole.”
Immagini poetiche, racchiuse in una frase dell’indiano Piede di Corvo, della tribù dei Piedi Neri.
Marlise Munoz ha 33 anni e di queste immagini poetiche e magnifiche, che sono il riflesso di una natura meravigliosa e imponente, forse destinata a morire a causa della sciagurata gestione che l’uomo ha del pianeta Terra, ormai non gode più.
Il 26 novembre, infatti, la donna, paramedico, a causa probabilmente di un aneurisma cerebrale, è svenuta e da quel momento non si è più ripresa.
Ma la donna, a causa del suo stato di gravidanza, nonostante sia clinicamente morta, è tenuta in vita artificialmente all’ospedale John Peter Smith di Forth Worth.
I medici si appellano ad una legge texana che “proibisce di negare un trattamento salva vita ad una paziente incinta”.
Tuttavia il marito Erik, a cui la stessa Marlise aveva confermato la sua intenzione di morire nel caso di fosse trovata in una simile situazione, non ci sta e intenta causa contro l’ospedale, colpevole, a suo dire, di non rispettare le volontà della giovane donna.
“Lei mi aveva fatto promettere che se si fosse trovata in questa situazione le avrei staccato la spina per consentirle di morire.” sono le sue parole quando gli si chiede il perché di una simile decisione.
Nel ricorso effettuato dai familiari si fa presente che l’ospedale non ha ragione di appellarsi alla legge che “proibisce di negare il trattamento salvavita ad una donna incinta” perché Marlise non è in pericolo gravissimo di vita, ma è clinicamente morta. (il suo encefalogramma è piatto)
In sostanza, nel ricorso si accusa il personale medico di non dare peso alle volontà di Marlise e della sua famiglia, attaccandosi all’interpretazione errata di una legge.
Quando la donna si è sentita male era alla quattordicesima settimana di gravidanza e, poco prima dell’arrivo dei soccorsi, è rimasta senza ossigeno per qualche minuto.
E il feto che lei porta in grembo ha seguito la sua stessa sorte, con probabili danni cerebrali, che, in caso di un (improbabile) proseguimento della gravidanza, avrebbero delle conseguenze devastanti sull’individuo che verrebbe al mondo orfano.
C‘è solo una cosa che ci si può chiedere dinanzi ad un simile, delicato caso: che cosa è la vita, se si riduce una madre ad essere una incubatrice di un figlio che probabilmente è morto con lei in una qualunque giornata novembrina?
Ottima scelta dell’immagine e ottimo articolo, brava, continua così;)
Situazione complessa, secondo me, sino a quando Erik non porterà uno scritto, dove la sua donna dichiara le sue preferenze (nei trattamenti similari), l’ospedale continuerà il suo lavoro.
Non conoscendo le leggi del Texas, mi limito a una commento più generale, dato che il problema riguarda anche molti casi simili in Italia.
Sicuramente la situazione sarebbe molto meno problematica anche a casa nostra se finalmente si legiferasse in materia di testamento biologico, in modo da tutelare sia le volontà del paziente che la posizione dei medici.
In tal caso a mio parere bisognerebbe mettere da parte posizioni ideologiche e dogmatiche, anche perchè sia il Codice di deontologia medica, che la Costituzione, già riconoscono il valore delle volontà espresse dal paziente.