Facebook tratta questo legame come se fosse amore; il marketer intelligente lo tratta come se fosse prostituzione.
Il “Mi piace” viene considerato comunemente un indicatore oggettivo di popolarità: tanti “Mi piace” significano che il personaggio, il prodotto, il brano musicale al quale sono associati è davvero gradito a tanti. Ma molti non sanno che esiste il fenomeno delle Like factory, le “fabbriche di Mi piace”: grandi gruppi di persone pagate per cliccare “Mi piace” su qualunque cosa. È uscito pochi giorni fa un corto di Garrett Bradley, intitolato Like e visibile su The Intercept, che getta luce su quest’industria sommersa il cui giro d’affari è stimato intorno a 200 milioni di dollari l’anno. Nel 2013, racconta Like, Facebook ha gestito circa 4,5 miliardi di “Mi piace” al giorno, e nel 2014 oltre il 90% dei 12,5 miliardi di dollari di ricavi di Facebook è arrivato dalla pubblicità. Le cifre in gioco, insomma, sono enormi, e per farsi notare servono “Mi piace”. C’è chi li coltiva creando contenuti interessanti, e chi li compra all’ingrosso. Dall’indagine di Like emerge che gli abitanti di Dhaka, in Bangladesh, da soli generano circa il 30-40% dei “Mi piace” pagati, e che per 50 dollari un cliente può ricevere 1000 o più “Mi piace”, tutti fatti da persone in carne e ossa. Questo mercato in Bangladesh è legale e quindi non ha motivo di nascondersi, e anche se dal 2012 Facebook ha iniziato a chiudere gli account sospettati di pagare per i “Mi piace” è banale per un lavoratore di queste “fabbriche” crearsi un account nuovo. È particolarmente azzeccata la descrizione del servizio data da una delle persone intervistate: “Facebook tratta questo legame come se fosse amore; il marketer intelligente lo tratta come se fosse prostituzione. Pagami e ti do l’amore – o il Mi piace”. Pensateci, prima di avvilirvi perché un vostro conoscente, concorrente o prodotto rivale ha tanti “Mi piace”.