Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano negli anni Settanta.
Nel lontano 1978 l’allora deputato del Partito Comunista Italiano Giorgio Napolitano mostrava le sue perplessità sulla all’epoca embrionale moneta unica continentale, quindici anni prima di Maastricht e dodici prima de “L’Euro minaccia la democrazia” dell'”ammazza-sindacati” Margaret Thatcher. Perplessità tutt’altro che peregrine e che, già all’epoca, profetizzava che l’abbraccio tedesco sarebbe presto o tardi divenuto una morsa letale.
Lo si legge nel resoconto stenografico della seduta dell’assemblea della Camera dei Deputati del 13 dicembre 1978, a partire da pagina 24992, durante una discussione riguardante l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo, che sarebbe entrato in vigore quattro mesi dopo. Si tratta di parole che sorprendono per la loro lucidità, poiché, senza tagliare di netto le gambe all’unione monetaria (come molti euroscettici sostengono senza averle lette, evidentemente), spiegano, anzi, profetizzano il futuro dell’allora CEE a distanza di quarant’anni.
Giorgio Napolitano, pur non respingendo le idee europeiste, ricordava che la costruzione di una unione monetaria non poteva svolgersi in modo frettoloso e, citando il governatore della Banca d’Italia, ammoniva che «Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea».
I negoziati, spiega Napolitano, presero però una piega sbagliata. Il colpevole? La Germania: «[…]dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E’ così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione.» Trentacinque anni dopo siamo esattamente a questo punto, con Paesi come i PIIGS in depressione economica e lentamente portati a quella destinazione finale, ovvero ladeflazione, che la Grecia sta già cominciando a sperimentare.
Le idee del futuro presidente della Repubblica, rilette con spirito del 2013, risuonano come un martello sulla testa di chi partecipò a quei negoziati (come Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio), poiché sembrano cronaca dei giorni nostri. Parafrasando Napolitano, “non è che questa costruzione monetaria filo-tedesca finirà per intaccare le nostre riserve auree, portandoci a perdere competitività e quindi costringerci a svalutare la moneta”. È esattamente ciò che è avvenuto negli anni successivi, fino alla svalutazione della lira all’inizio degli anni Novanta (anche se, va precisato, non fu tutta colpa dello SME, anzi, i corrottissimi governi italiani negli anni Settanta-Ottanta ebbero colpe gravissime nello sviluppo rapido ma sbilenco del Paese).
Ma il Napolitano con il cronovisore non termina qui, anzi, dopo la svalutazione ricorda la possibilità che l’Italia possa essere costretta ad «adottare drastiche manovre restrittive». E qui vediamo, facendo andare avanti la videocassetta della Storia, l’eurotassa di Romano Prodi, che ci permise di entrare nell’euro (insieme a qualche trucco contabile di Carlo Azeglio Ciampi) e, dopo il decennio berlusconiano che, con il suo immobilismo fatto solo di proclami ha peggiorato ulteriormente la situazione, arriviamo al governo Monti e alla sua dolorosissima austerità: una scelta, quella di re Giorgio, che possiamo immaginare sofferta, mentre emergiamo dalla Camera del dicembre 1978, poiché a quell’austerità il governo Berlusconi-Tremonti avevano legato il Paese nel 2011, nel disperato tentativo di rimanere a galla, mentre lo spread saliva e l’economia crollava.
Leggiamo ancora Napolitano: «Il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita; di vedere allontanarsi, invece di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.»
Questi rischi, evidentemente, erano ben noti al governo dell’epoca, che pure, nei negoziati, chiesero trasferimenti dalle aree più ricche a quelle meno prospere. Un embrione di unione fiscale, che oggi, mentre l’Europa continua a scivolare su salvataggi che non salvano nessuno,viene richiesta a sempre più forte voce, sempre più inascoltata.
Chiosa ancora Napolitano: «La verità è che forse […] si è finito per mettere il “carro” di un accordo monetario davanti ai “buoi” di un accordo per le economie.» Si chiede retoricamente il deputato comunista, come mai tutti spingono così tanto per l’Italia nell’euro? E perché l’Italia non ha fatto leva su questo interesse per ottenere un negoziato che giungesse a conclusioni meno irresponsabili?
Già, perché? Sono domande che ci facciamo ancora oggi e che dobbiamo porci ancora adesso: l’Italia è nell’euro e questo è un dato di fatto che non può, né deve cambiare, poiché l’Italia e l’Europa intera imploderebbero, e il botto sarebbe tanto forte che le conseguenze si sentirebbero in tutto il globo.
Piuttosto è necessario che il governo di Re Giorgio prossimo venturo segua quella stessa linea politica che quel giovane deputato napoletano portava avanti in un’aula tuttavia sorda a quei moniti: battere i pugni sul tavolo perché si cambi rotta, poiché l’Europa a guida tedesca continua a farci sbattere contro gli iceberg. Lo scafo dell’euro si sta riempiendo d’acqua: o ci salviamo tutti o affonderemo insieme. Source: ibtimes