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Storia di una capinera

Recensione e riflessioni
Storia di una capinera è un romanzo epistolare (il corpo del romanzo è costituito da una serie di lettere mandate dalla protagonista alla sua amica) di Giovanni Verga scritto nel 1869 e pubblicato nel 1871, nel quale l’autore, prendendo spunto dal romanzo “La monaca” di Diderot, dalla storia di Gertrude ne “I promessi sposi” e, in parte, sfruttando il suo vissuto autobiografico, tratta il tema della monacazione forzata, usanza purtroppo diffusa per secoli per impedire la disgregazione del patrimonio familiare.
Ad essere colpite erano soprattutto le figlie femmine (anche se ci sono casi di monacazione forzata degli uomini) che, prive di una dote, sovente erano mandate in convento (come ho detto prima, tale tema viene affrontato ne “I promessi sposi” di Manzoni e nel romanzo “La monaca” di Denis Diderot).
La storia parla di Maria, una giovane figlia di un “modestissimo impiegato, che, a seguito di una epidemia di colera, lascia Catania e il convento, a cui è stata destinata dall’età di sette anni, per andare in campagna a Monte Ilice.
Nel corso del suo soggiorno in questa amena località, Maria ha l’occasione di conoscere la vita fuori dal convento e stringe ancora di più il rapporto con i fratellastri Giuditta e Gigi, nati dal secondo matrimonio di suo padre.
Tuttavia, nel corso di questo soggiorno, Maria conosce anche l’amore di Nino, figlio dei coniugi Valentini, che abitano a poca distanza dalla casa della famiglia di lei.
Passato il pericolo dell’epidemia, Maria ritorna al convento, dove continua il periodo di noviziato, ma il periodo trascorso a Monte Ilice ha aperto nel suo cuore un abisso di desiderio, rimpianto e disperazione.
Maria, infatti, nonostante tutto, continua ad amare Nino disperatamente, ma questo sentimento la fa sentire indegna e tale conflitto interiore si ripercuote sul suo corpo, consumandolo a poco a poco.
A questo si aggiunge la melliflua azione della matrigna che, ansiosa di conservare il patrimonio paterno per la sua figlia, le ricorda costantemente l’assoluta indegnità del suo amore per il giovane.
Il matrimonio di Nino con la sorellastra di lei, Giuditta, e la pronuncia dei voti perpetui abbattono la sua psiche e, disperata, tenta di fuggire dal convento.
Viene ripresa dalle converse e trascinata nella cella delle suore matte e da lì viene portata in infermeria, dove muore.
Il romanzo si conclude con suor Filomena che chiede a Marianna (amica di Maria a cui lei inviava le lettere) di ricevere gli oggetti a Maria più cari: un crocifisso, delle ciocche di capelli e delle foglie di rosa.
In questo romanzo Verga denuncia la condizione di subalternità della donna, che viene considerata come un peso dalle famiglie e condannata ad una reclusione senza alcuna colpa e senza alcuna considerazione per i suoi desideri e i suoi sogni.
Questa denuncia raggiunge il suo apice nell’ultima parte del romanzo “E’ morta come una santa. Beata lei!
Nel giorno fatale in cui per errore fu creduta pazza, la sua salute rovinata ricevette l’ultimo colpo. Gesù Maria! Che giorno fu quello!
Quanto soffrì la poveretta! Era così gracile, così debole! Si reggeva appena e quattro converse non bastavano a trascinarla alla cella destinata alle mentecatte! Mi sembra di avere ancora nelle orecchie quegli urli disperati che non avevano nulla di umano , e di vedere quel suo viso delirante di terrore e inondato di lacrime che spezzavano il cuore…
Quando aprirono il cancello era svenuta. La lasciarono là, sul nudo suolo. Che Dio mi perdoni! Credo che suor Agata, la povera matta, sia stata la sola ad avere pietà di quella sventurata perché non osò farle alcun male; la guardava con quegli occhi istupiditi, e si accosciava sul suolo accanto a lei,la toccava e la scuoteva come se avesse voluto rianimarla.”(Giovanni Verga, 1893, Storia di una Capinera, I grandi tascabili Newton)
In questo pezzo, è evidente l’assurdità dell’educazione conventuale, basata sulla repressione e sulla convenienza. (tra l’altro, occorre precisare che queste monacazioni imposte erano contro quanto stabilito dal concilio di Trento, che poneva l’accento sulla libera volontà dell’aspirante religiosa)
Le suore, miopi e incapaci di comprendere lo stato di prostrazione di Maria, la rinchiudono nella cella destinata alle matte e non si curano nemmeno del suo stato di salute, perché Maria, a causa della sua fuga dal convento (e dal suo destino di monaca senza volontà), è diventata una ribelle a cui va negata qualsiasi gentilezza.
Infatti, spicca positivamente la figura di suor Agata, che, nella sua pazzia, dimostra più umanità e coscienza delle cosiddette suore “sane”, perché cerca, a modo suo, di farla rinvenire e non le fa alcun male.
Nella sua pazzia, la suora matta sembra capire assai meglio dei “sani” che la giovane lasciata distesa “sul nudo suolo” in realtà non è una matta da rinchiudere (purtroppo sembra sia destino comune dei contestatori essere condannati alla cura psichiatrica), ma una ragazza costretta ad una vita che non le appartiene.
Un confronto tra questo romanzo e la storia di Gertrude nel celeberrimo romanzo di Manzoni (in realtà tale perché è il primo romanzo di un certo calibro in Italia, a parere mio) sorge spontaneo, tuttavia, a parte il tema e la presenza della “persuasione occulta” (Maria comincia ad avere dubbi quando esce dal convento e vive un anno di libertà a Monte Ilice), saltano all’occhio evidenti differenze dei personaggi e il giudizio sulla questione della monacazione forzata da parte degli autori.
A differenza della monaca di Monza, che si macera nella rabbia impotente verso il sistema che l’ha condannata e la sfoga tiranneggiando le suore di rango inferiore e macchiandosi di vari delitti, Maria tenta una fuga da quella che vede come una prigione per il corpo e lo spirito, esasperata da un sentimento che, malgrado le sue preghiere e la sua disperazione, alligna tenace nel suo cuore.
Inoltre, l’atteggiamento dei due scrittori è diverso: Manzoni è incapace di immedesimarsi totalmente nel vissuto di una donna costretta ad un destino che non è il suo e, accanto alla inutile pietà religiosa, c’è la condanna morale, dettata dall’incapacità di un uomo di comprendere le deviazioni criminali di una psiche costretta ad una vita che non è sua (basta vedere gli inni sacri quando Manzoni si chiede perché la schiava, stringendo i suoi pargoli, invidia la donna libera…).
In Verga, non è presente tale arroganza culturale (anche perché Verga ha vissuto sulla sua pelle la conseguenza di un amore che non poteva esprimersi a causa della monacazione forzata) e la colpa del tragico destino della protagonista non è sua (anche perché Maria cerca di reprimere tale sentimento, mostrando quindi un alto senso morale), ma di una società ipocrita e repressiva, che solo nel XIX secolo ha cominciato a rompere le crepe dell’oppressione clericale in nome della libertà.

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Written by Zahira

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