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Intervista a Riccardo Barracu regista di Resistance

“Resistance” è il titolo dell’ultimo cortometraggio di Riccardo Barracu, regista italiano emigrato a Berlino. Concepita come una meditazione sull’attualità del concetto di resistenza, il film ha attirato le attenzioni della critica e del pubblico berlinese e non solo. Ne parliamo con il regista, che ci rivela qualche retroscena anche sulla condizione di ‘espatriato’.

Come nasce il progetto di Resistance?
Il progetto nasce da un invito al Festival Internazionale Ars Resistance Shoah di Reggio Emilia. Alla richiesta del direttore artistico Salvatore Trapani di produrre un cortometraggio sul tema della Resistenza ho risposto immediatamente, pensando tuttavia di discostarmi dal concetto puramente storico di resistenza, allargando la prospettiva a ciò che di questo concetto rimane nel quotidiano. Dopo diversi mesi di lavoro, anche insieme allo sceneggiatore Emilio El Laurent, ho deciso di focalizzare il concept sulla prospettiva attualissima della privazione e della sottrazione di libertà. L’uomo prigioniero che umiliato e defraudato della sua dignità incontra il dolore. La resistenza è quella al dolore, espressione concreta del potere che gioca con la dignità degli uomini privandoli indegnamente propria identità. Dunque, punto centrale della narrazione sono tre attori, in stato di prigionia, quasi storditi da una coazione a ripetere in cui è stilizzato il loro ruolo. Mi è sembrata questa la metafora migliore di un potere che stabilisce il suo dominio assoluto sulla vita tramite uno stato di rimbecillimento. Lo spazio per la resistenza rimane quindi essenzialmente psicologico, restringendosi a spazio di sopravvivenza e autopreservazione.

Puoi raccontarci qualcosa sulla storia “tecnica” del film?
La preparazione è durata quasi sei mesi, mentre le riprese, fatte fra Berlino e l’Italia sono state alquanto veloci. Al termine dei lavori a Berlino infatti ho avuto l’idea di ripetere le stesse scene appena girate in Italia, con tre attori che interpretassero la stessa identica scena in un’atmosfera molto simile. Ho pensato a tre visi totalmente differenti, che rappresentano tuttavia la stessa contaminazione del male. Le condizioni di lavorazione hanno portato a grandi differenze nella luce, nei colori e nella tecnica, ma la ripetizione dei gesti rivela quanto l’intenzione sia la stessa: mostrare impietosamente l’istanza maligna che sottende al dominio e lo status di sopraffazione.
Ancora prima di essere proiettato a Reggio Emilia, con mia grande sorpresa, il film è stato presentato fuori concorso al Festival internazionale del Cinema di Berlino e da li è partito un piccolo grande successo.

Qual è il tuo background?
Nel mio lavoro finora prevalentemente mi sono occupato di antropologia, di semiotica, di cosmogonia. E mi piace molto la sperimentazione. La palestra culturale di Bologna all’università, e Parigi con i corsi di cinema a Paris 8 della Sorbona con Peter Weir e Claude Chabrol, Il Living Theater di NY con Judith Malina hanno determinato in me sempre la scelta di mettere al centro del racconto l’uomo e il suo spazio, la sua essenza individuale. Io cerco di raccontare questo, è questo chi mi ha sempre interessato. Anche a teatro con ‘Hieros’ ho raccontato l’uomo come motore del tutto, motore ed azione dell’universo. In Resistance sono partito da un concetto storico certo, collocabile in un’epoca molto vicina a noi; ma la storia è relativa, senza l’uomo non esiste, perciò non racconto la storia funzionale ma l’uomo che la determina.
Ho iniziato a occuparmi di regia quando molti amici mi spronavano a farlo visto le mie idee eclettiche di trasformare le persone, l’uomo, la realtà circostante e lo spazio, gli oggetti. Mi piaceva modificarne il contesto, l’ambientazione, i costumi, inserirli in “scene” di vita differenti, e poi raccontavo vividamente gli accadimenti come se scorressero davanti agli occhi.
Ho fatto prima l’ attore, per diversi anni, mentre facevo l’università seguivo i corsi dell’Accademia Galante Garrone di Bologna, tra i mille provini su e giù per Roma e Milano.
Ho iniziato a occuparmi prima di teatro, ma la mia passione forte era il cinema, anche quando facevo l’attore. Ricordo con affetto il mio primo film dove avevo una bella parte ‘Domani compio vent’anni’, di Virginia Capogna mi presentò alla regista Pier Vittorio Tondelli un amico scrittore con cui uscivo la sera nelle osterie a bere vino e mi disse: “è un ruolo semplice fai il provino” – “parla di una storia romantica tra giovani spensierati, come te”. Mi presero, ero al settimo cielo, invitai a cena Pier Vittorio come da scommessa e alla fine del film andammo assieme alla prima al cinema Rialto. Tutti gli attori erano esordienti come me, c’era anche una compagna del teatro Bibiena. Quella serata, con l’aria stordita dal caldo bolognese, fu per me quasi un rito di iniziazione.
Ricordo così anche il mio primo corto da regista “La scelta”, girato in pellicola, difficile da chiudere, da montare, ma anche lì un bell’entusiasmo con le persone con cui si lavorava. Insomma macinavo cinema da quando ero ragazzino, la passione mi divorava, riuscivo a vedere anche tre film al giorno in TV, tutti quelli in bianco e nero, Gangster americani, Noir, Neorealismo, Nouvelle Vague… Poi all’università, con i corsi di cinema i film da vedere erano diventati dieci, undici da vedere in un giorno solo per prepararsi agli esami, ma mai un cedimento, così quella primordiale passione diventava una struttura.

Qual è invece il tuo rapporto attuale con il cinema? E i tuoi progetti per il futuro?
Oggi sono sempre pieno di passione per questa splendida arte che è diventata il mio lavoro. Mi piace il cinema di fantascienza, Matrix è il film che preferisco degli ultimi anni, dei precedenti Picnic ad Hanging Rock, Alien, poi per citarne gli altri dovrei aprire un file. Ho pensato che la seconda parte della trilogia di Resistance parlerà di Virus, le locations saranno davvero intriganti tra passato e futuro e così gli attori. Sto infatti già lavorando al sequel con artisti che si occupano anche di effetti speciali in post produzione, a Berlino ci sono creativi davvero bravi con cui si dialoga per fare insieme.

Già, Berlino. Se ne parla come una della capitali mondiali della creatività. Quanto è importante Berlino come base per il tuo lavoro attuale?
È una città fatta per chi ha voglia e desiderio per l’arte. Ci sono reali possibilità di lavoro, produzione e distribuzione, cose che per giovani artisti in Italia in questo momento è più difficile. Certo, devo ammettere che, non vivendoci da qualche anno, è facile commentare negativamente facendo dei paragoni insostenibili che sono evidenti ai più, ma è un peccato perché persone serie e capaci sono penalizzate da una politica che non solo non favorisce la cultura ma penalizza i giovani le loro aspettative, deludendo i loro sogni.
Berlino è la città dove vivo e che rappresenta appieno le mie aspettative, è una realtà coerente, moderna, emancipata, civile. Sembrano parole buttate lì. Ma sono un futuro che all’Italia manca, quello che ha perso da almeno un trentina d’anni, come quello dei diritti, della legalità. Qua le persone si sentono sicure e legittimate nell’esprimere anche i loro sogni. La meritocrazia è cosa che da poche parti viene motivata e premiata. A Berlino sono arrivato per un Master e mi sono fermato. Resistance è un progetto che sta portando fortuna ma è un progetto lavorato, espresso con un team di tecnici e attori in cui tutti hanno creduto ed con loro che condivido l’esperienza emozionante di consenso che sta ottenendo nei festivals di mezza Europa, nei cinema tra la gente. E’ a tutte queste persone e amici, che ho incrociato finora nella mia esperienza di vita a cui devo la mia crescita, che non è mai sazia, a cui devo davvero tanta gratitudine, affetto.

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