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Conte di Cagliostro

Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Franco Balsamo, noto con il nome di Alessandro, conte di Cagliostro o più semplicemente Cagliostro (Palermo, 2 giugno 1743 – San Leo, 26 agosto 1795), è stato un avventuriero, esoterista e alchimista italiano. Dopo una vita errabonda nelle varie corti europee, fu condannato dalla Chiesa cattolica al carcere a vita per eresia e rinchiuso nella fortezza di San Leo.

Un’infanzia difficile
Giuseppe Balsamo nacque a Palermo il 2 giugno 1743, figlio di Pietro Balsamo, un venditore palermitano di stoffe, e di Felicita Bracconeri, fu battezzato l’8 giugno 1743 con i nomi di Giuseppe, Giovanni Battista, Vincenzo, Pietro, Antonio e Matteo. Il padre morì poco tempo dopo la sua nascita e Giuseppe fu accolto nell’istituto per orfani di San Rocco dove compì i primi studi, seguito dalla cura degli Scolopi. Da quel collegio Giuseppe fuggì più volte, a testimonianza di un carattere giudicato ribelle a ogni educazione; per questo motivo la famiglia pensò bene di affidarlo, nel 1756, al convento dei Fatebenefratelli di Caltagirone affinché vi temperasse l’indole e vi imparasse un mestiere. Così, nel convento che era annesso all’Ospedale dello Spirito Santo, Giuseppe si interessò di erbe medicinali, delle loro proprietà e delle tisane utilizzate dalla medicina dell’epoca; una conoscenza che gli tornerà utile negli anni a venire. Non è chiaro se scappò anche dal convento o se semplicemente ne fu dimesso; in ogni caso, tornato a Palermo, si recò poi a Messina, dove avrebbe conosciuto un certo Altotas, forse un greco-levante, con il quale avrebbe viaggiato in Egitto, a Rodi e a Malta, e che Cagliostro indicò come suo primo maestro, che l’avrebbe introdotto nel 1766 nell’Ordine dei Cavalieri di Malta. Queste notizie furono fornite da Cagliostro in un suo Memoriale del 1786, ma sulla figura dell’Altotas la storia non ha mai fatto alcuna luce.

Il matrimonio
Nel 1768 il Balsamo è a Roma e vi è arrestato per una rissa nella Locanda del Sole, in piazza del Pantheon: dopo tre giorni, è rilasciato grazie all’intervento del cardinale Orsini, il maggiordomo del quale, don Antonio Ovis, aveva nel frattempo conosciuto. È ancora nel 1768, il 21 aprile, che Balsamo si sposa nella chiesa di San Salvatore in Campo con Lorenza Serafina Feliciani, una bella ragazza nata l’8 aprile 1751, analfabeta, figlia di un fonditore di bronzo. Il certificato di matrimonio è tuttora conservato e attesta che il Nostro si chiama effettivamente Giuseppe Balsamo ed è figlio del fu Pietro, palermitano: non vi è traccia di alcun titolo nobiliare, né in particolare del nome di Cagliostro. A Roma il Balsamo, discreto disegnatore, vive falsificando documenti, diplomi e sigilli, oltre ad alcune millantate onorificenze, come il titolo di “Colonnello del Re di Prussia”, peraltro mai ricevute, in complicità con due conterranei, un sedicente marchese Alliata e un certo Ottavio Nicastro, che morirà impiccato per aver ucciso l’amante. È proprio quest’ultimo, insieme con il suocero di Balsamo, a denunciarlo come falsario e allora Giuseppe e Lorenza, con il marchese, abbandonano Roma per un lungo viaggio che li porta fino a Bergamo: qui, continuando la prediletta attività di truffatori, vengono entrambi arrestati, mentre l’Alliata riesce ancora a fuggire. Rilasciati, si trasferiscono in Francia – ad Aix-en-Provence conoscono Giacomo Casanova, che definisce Balsamo «un genio fannullone che preferisce una vita di vagabondo a un’esistenza laboriosa» – e ad Antibes, dove, con i proventi della prostituzione di Lorenza, si procurano il denaro per raggiungere Barcellona nel 1769. Anche qui Lorenza viene spinta dal marito nell’accogliente letto di ricchi personaggi: insieme con uno di questi, un tale marchese di Fontanar, raggiungono alla fine dell’anno Madrid: mantenuti nel palazzo del marchese, cercano intanto di guadagnare l’amicizia di influenti personalità della capitale spagnola. Cacciati alla fine di casa, nel 1770 si trasferiscono a Lisbona, dove Lorenza diviene l’amante del banchiere Anselmo La Cruz. L’anno dopo la coppia è a Londra: qui Balsamo cerca perfino di guadagnarsi la vita onestamente disegnando pergamene, ma con poco successo e ancor meno profitto; perciò, con la complicità di un altro sedicente marchese, un siciliano di nome Vivona, organizza un ricatto ai danni di un ingenuo quacchero che, spinto ad amoreggiare dalla compiacente Lorenza, viene sorpreso da Balsamo che, fingendosi scandalizzato per il tradimento della moglie, pretende che il suo onore debba essere risarcito soltanto con un’abbondante somma di denaro. Derubato però dall’infido complice, il Balsamo, rimasto insolvente con la padrona di casa, deve fare la conoscenza anche delle galere londinesi; ma il ricco sir Edward Hales, convinto da Lorenza, lo tira fuori dal carcere pagandogli i debiti e, illudendosi che Balsamo sia un bravo pittore, lo incarica di decorargli alcune sale del suo castello: naturalmente, veduti i disastrosi risultati dell’improvvisato affrescatore, lo caccia via, senza immaginare che l’italiano, tra una maldestra pennellata e l’altra, gli ha intanto sedotto la figlia. Seguendo un vecchio copione, emigrano nuovamente: imbarcati il 15 settembre 1772 per la Francia, durante il viaggio conoscono l’avvocato francese Duplessis, amministratore dei beni della marchesa de Prie e, sulla traccia di quello stesso copione, giunti a Parigi e alloggiati nel palazzo de Prie, Lorenza diviene l’amante prezzolata del Duplessis sotto lo sguardo compiaciuto del disinvolto marito. Ma questa volta si assiste a un colpo di scena: Lorenza sembra voler cambiar vita, sistemarsi con quell’avvocato che, oltre a godere di notevoli rendite, appare perfino innamorato di lei. Rompe così con Balsamo e, se pure non convive apertamente col Duplessis, perché una tale iniziativa, per una donna legalmente coniugata, avrebbe costituito un reato, va però ad abitare in un alloggio pagato dall’avvocato e, con l’approvazione della marchesa, denuncia Balsamo per sfruttamento della prostituzione. A seguito della controdenuncia del Balsamo per abbandono del tetto coniugale, Lorenza è arrestata e passa quattro mesi nelle carceri parigine di Sainte-Pelagie; pur di uscirne, nel giugno del 1773, ritira la denuncia e ritorna con Balsamo. Nuovi viaggi: Belgio, Germania, Italia, Malta, Spagna e infine, nel luglio 1776, nuovamente a Londra.

Balsamo massone, mago, alchimista e guaritore
Adottando in questo periodo il nome di Alessandro di Cagliostro, a Londra la sua vita non mutò: entrò e uscì dal carcere a causa di diverse truffe consumate – predizioni sui numeri estratti nel gioco del lotto o sottrazione di gioielli ai cui proprietari faceva credere di aumentarne il valore grazie alle proprietà miracolose di una polvere di sua invenzione – finché, il 12 aprile 1776 (o 1777) fu iniziato in Massoneria nella loggia “L’Espérance”, appartenente al Rito della Stretta Osservanza, che si riuniva in una taverna di Soho.[1] Passati nei Paesi Bassi, i due coniugi (sua moglie sarebbe stata iniziata con lui) sono accolti a L’Aia nella loggia L’Indissoluble; sembra che il suo lunghissimo discorso, tenuto in una lingua in cui sono presenti parole di tutta l’Europa senza che nessuna sia pronunciata correttamente, abbia avuto grande successo e anche la moglie, da quel momento chiamata Serafina, contessa di Cagliostro, è riconosciuta come massone. Ma era tempo di frequentare paesi nuovi: nel 1779 sono in Germania e poi in Curlandia, parte dell’attuale Lettonia, nella capitale Mitau, oggi Jelgava. Spacciatosi per colonnello spagnolo, tiene riunioni in cui fa credere di appartenere a una società segreta, organizzata secondo cinque livelli di elevazione spirituale, di avere e di far avere visioni mediante l’idromanzia, di evocare spiriti, di essere un sapiente la cui conoscenza si trovava In verbis, in herbis, in lapidibus, nelle parole, nelle erbe e nelle pietre, il motto della sua setta. Semianalfabeta e improvvisatore, commette inevitabili errori di gusto, come quando dichiarò di essere in grado di soddisfare, con un sortilegio, qualunque desiderio sessuale o quando sostenne di essere figlio di un angelo. A San Pietroburgo viene diffidato dall’ambasciatore di Spagna a spacciarsi per spagnolo e un suo documento, col quale voleva attestarsi come un Rosacroce, viene riconosciuto per falso. Si presenta anche come taumaturgo e ha l’accortezza di non farsi pagare dai poveri – solo dai ricchi – e se non ottiene nessuna guarigione, si guadagna simpatia e popolarità; ma basta l’inimicizia o l’incredulità di un potente per costringere i due italiani a partire: e così, nel maggio 1780, Cagliostro e Lorenza sono a Varsavia. Il massone, appassionato di alchimia, principe Adam Pininsky, lo ospita illudendosi che Cagliostro sia in grado di trasformare il piombo in oro: a questo scopo gli affianca il confratello massone August Moszynsky negli esperimenti di laboratorio. Questi pubblicherà nel 1786 un libretto sulle esperienze alchemiche del Nostro, riferendo come Cagliostro ottenesse l’oro dal piombo semplicemente sostituendo il recipiente contenente il piombo con un altro eguale contenente l’oro. A questo prevedibile infortunio si aggiunge quello scoperto ai danni di una ragazza, da lui sessualmente molestata, con la quale si era altresì accordato per la riuscita di altrimenti improbabili evocazioni spiritiche. L’esperienza polacca, come consuetudine, si conclude con la partenza improvvisa, il 26 giugno 1780, per la Francia. A Strasburgo si accontenta di fingersi medico: se le sue tisane a base di erbe, la cui ricetta si è conservata, si rivelano semplici placebo, le guarigioni di cancrene ottenute bevendo liquori sono naturalmente fantasie propalate da lui stesso, che ottenevano tuttavia l’unico effetto che realmente gli premesse: presentarsi al pubblico di tutta l’Europa come l’unico uomo capace di risolvere – a pagamento – qualsiasi problema. E la sua fama toccò il culmine proprio in quel decennio del secolo.

Il Rito Egizio
Louis René Édouard de Rohan, creato cardinale il 1º giugno 1778 da Pio VI, era stato a lungo ambasciatore di Francia a Vienna dove commise una grave gaffe diplomatica: descrisse l’imperatrice Maria Teresa d’Austria come un’insopportabile ipocrita in una lettera inviata al duca d’Aiguillon. Così, quando Luigi XVI e Maria Antonietta salirono sul trono francese, nel 1774, il Rohan perdette il posto di ambasciatore ma non il consueto buonumore, dal momento che le sue rendite continuarono ad aumentare ugualmente e le sue avventure galanti rimasero numerose. Il cardinale, che passava buona parte dell’anno a Strasburgo, saputo della presenza in città di Cagliostro, lo invitò a palazzo e ne fu conquistato. Appassionato di alchimia, credette di ravvisare in Cagliostro un maestro; ritenendolo un infallibile medico, lo condusse con sé a Parigi perché si prendesse cura del cugino, il maresciallo Charles de Rohan, il quale, per sua fortuna, guarì senza dover ricorrere alle improbabili medicine dell’italiano. Anni dopo Cagliostro cercherà di servirsi dell’influenza del cardinale per far legittimare dal papa, come fosse un qualsiasi Ordine religioso, il proprio “Rito Egizio”, una curiosa specie di Ordine massonico-religioso, che egli dirà di aver fondato a Bordeaux nel 1784. A conclusione del solito lungo tour che doveva portarlo in Inghilterra attraverso Napoli, Roma e la Costa Azzurra, giunto a Bordeaux l’8 novembre 1783, in maggio si ammalò e, forse in un delirio febbrile, come è scritto nel Compendio del suo processo, «si vide prendere per il collo da due Persone, strascinare e trasportare in un profondo sotterraneo. Aperta quivi una porta, fu introdotto in un luogo delizioso come un Salone Regio, tutto illuminato, in cui si celebrava una gran festa da molte persone tutte vestite in abito talare, fra le quali riconobbe diversi de’ suoi Figli Massonici già morti. Credette allora di aver finiti li guai di questo mondo e di trovarsi in Paradiso. Gli fu presentato un Abito talare bianco, ed una Spada, fabbricata come quella che suol rappresentarsi in mano dell’Angelo Sterminatore. Andò innanzi ed abbagliato da una gran luce, si prostrò e ringraziò l’Ente Supremo di averlo fatto pervenire alla felicità; ma sentì da un’incognita voce rispondersi: Questo è il presente che avrai; ti bisogna ancor travagliare molto; e qui terminò la Visione». Dopo questa visione, Cagliostro fondò la Massoneria di Rito Egizio. Si elegge Gran Cofto e crea la moglie – ora chiamata principessa Serafina e Regina di Saba – Grande Maestra del Rito d’adozione, cioè della Loggia riservata alle donne; fatta risalire l’origine di tale massoneria ai profeti biblici Enoch ed Elia, secondo una tradizione che vedeva nell’intervento di quei due profeti la premessa a un radicale mutamento della vita, con la successiva venuta di un “papa angelico” o dello stesso Cristo, Cagliostro sosteneva che scopo del Rito Egizio fosse la rigenerazione fisica e spirituale dell’uomo, il suo ritorno alla condizione precedente alla caduta provocata dal peccato originale, ottenuta, dal Gran Cofto e dai dodici Maestri che lo avrebbero assistito, con ottanta giorni di attività iniziatiche. Per i nuovi aderenti, naturalmente, i tempi per raggiungere la perfezione sarebbero stati molto più lunghi: solo al dodicesimo anno di appartenenza, sarebbero potuti diventare maestri e prendersi cura dei nuovi iniziati. Ma solo lui, il Gran Cofto, rimaneva depositario di un mysterium magnum il cui contenuto è rimasto effettivamente avvolto nel mistero. Con questo ambizioso programma Lorenza e Cagliostro, il quale per l’occasione si fa chiamare conte Phenix, giungono il 20 ottobre 1784 a Lione, dove esistono numerose Logge massoniche; Cagliostro riesce a procurarsi fra di esse i dodici maestri che gli abbisognavano subito e, comprato un terreno nell’attuale avenue Morand, provvede a far costruire la sede della sua Loggia, “La sagesse triomphante”. I lavori erano ancora in corso quando i due coniugi partirono per Parigi, decisi a raggiungere il traguardo finale: il riconoscimento, da parte della Chiesa cattolica, del suo Rito Egizio. Giunti a Parigi il 30 gennaio 1785, prendono un alloggio nel Palais Royal, di proprietà del duca Luigi Filippo II di Borbone-Orléans (1747-1793), Gran Maestro della Massoneria francese e futuro Filippo Egalité, fondano in fretta due Logge, una per gli uomini e l’altra per le donne, entrambe frequentate da aristocratici.

Lo scandalo della collana
È nota la vicenda passata alla storia come lo scandalo della collana: nel 1774 il gioielliere di corte Boehmer aveva realizzato una elaboratissima collana di diamanti, del valore di 1.600.000 livres – poco meno di venti milioni di euro – una somma che forse solo una regina avrebbe potuto spendere, ma Maria Antonietta rifiutò l’acquisto. A questo punto entrarono in gioco due avventurieri, il conte e la contessa De la Motte, che organizzarono una truffa ai danni del cardinale de Rohan, convincendolo che in realtà Maria Antonietta desiderava acquistare la collana e dunque a farsi garante presso il gioielliere per conto della regina, riconquistandone così la sua amicizia – e forse anche altro – perduta dopo la gaffe da lui commessa nei confronti di Maria Teresa, madre della regina francese. La collana, consegnata dall’inconsapevole cardinale a un complice dei due aristocratici imbroglioni, finì nelle mani del conte De la Motte, che cercò di venderla, smembrata, in Inghilterra ma la truffa fu scoperta e i colpevoli arrestati: la contessa De la Motte, per attenuare le sue responsabilità, accusò Cagliostro di essere l’ideatore del raggiro. Arrestato con la moglie il 22 agosto 1785, Cagliostro fu incarcerato nella Bastiglia. Fu difeso dai migliori avvocati di Parigi, uno dei quali lo aiutò a scrivere in francese un suo Memoriale, di fatto un riassunto della sua vita dalla nascita al suo arresto. Il 31 maggio 1786 il Parlamento di Parigi riconobbe l’innocenza dei due italiani, insieme con quella del cardinale, ma una lettre de cachet del re ordinò loro di lasciare Parigi entro otto giorni e la Francia entro venti; e così, il 19 giugno, Lorenza e Giuseppe s’imbarcarono da Boulogne per Dover.

Il declino
Il primo novembre 1786, a Londra, Cagliostro è ricevuto in visita nella Loggia “Antiquity”. In Inghilterra dovette fronteggiare una campagna di stampa scatenata contro di lui dal Courier de l’Europe, un giornale controllato dal governo francese, che per tre mesi rivangò il burrascoso passato di Giuseppe Balsamo e di Lorenza Feliciani, le loro origini oscure, l’uso di molti nomi e di molti titoli, i veri e presunti imbrogli e i non rari arresti; Cagliostro, nel novembre 1786, rispose con la Lettera del conte di Cagliostro al popolo inglese per servire in seguito alle sue memorie in cui ammetteva: «non sono conte, né marchese, né capitano. La mia vera qualifica è inferiore o superiore a quelle che mi sono state date? È ciò che forse un giorno il pubblico saprà! Intanto, non mi si può rimproverare d’aver fatto quel che fanno i viaggiatori che vogliono mantenere l’anonimato. Gli stessi motivi che mi hanno indotto ad attribuirmi vari titoli, mi hanno condotto a cambiare più volte il mio nome […] Nessun registro di polizia, nessuna testimonianza, nessuna inchiesta della polizia della Bastiglia, nessun rapporto informativo, nessuna prova hanno potuto stabilire che io sia quel Balsamo! Nego di essere Balsamo!». Intanto intorno a Balsamo si va facendo il vuoto: lasciata Londra per Hammersmith nel marzo del 1787, dà lezioni di alchimia e subisce altri infortuni: un suo allievo sostituisce, a sua insaputa, il metallo che Cagliostro doveva “trasmutare” con del semplice tabacco e stranamente la trasmutazione si verifica lo stesso, con gran scandalo dell’allievo che gli rinfaccia la truffa, mentre intanto i suoi collaboratori massoni di Lione lo rimproverano di spendere per sé il denaro della Loggia. È nuovamente tempo di cambiare aria: il 5 aprile 1787, questa volta senza la moglie, raggiunge Bienne, in Svizzera. Mentre è ospite del banchiere Sarasin, Lorenza, che è rimasta a Londra per liquidare i beni lì posseduti, viene avvicinata dal giornalista del Courier de l’Europe, al quale raccontò di maltrattamenti subiti dal marito e degli impedimenti che lui le poneva di professare la religione cattolica. Una volta raggiunto Cagliostro in Svizzera, Lorenza ritrattò tutto pubblicamente ma tutto riconfermò in una lettera spedita ai genitori, a Roma, lettera che verrà mostrata come prova a carico di Cagliostro durante il processo. Nello stesso periodo in cui Balsamo era in Svizzera, Goethe, nel suo lungo viaggio in Italia, il 2 aprile sbarcava a Palermo proveniente da Napoli; curioso di raccogliere notizie di prima mano sulle origini del nostro famosissimo avventuriero, contattò il barone Antonio Vivona, rappresentante legale della Francia in Sicilia, dal quale prese visione dell’albero genealogico della famiglia Balsamo e della «perfetta identità di Cagliostro e Balsamo».

La testimonianza di Goethe
Goethe, che scrive di considerare Cagliostro «un briccone» e le sue avventure delle «ciurmerie», volle rendere visita alla madre e alla sorella, spacciandosi per «un inglese che doveva portare ai familiari notizie di Cagliostro, giunto di recente a Londra». «Abitavano in una misera casa di Palermo, composta di un solo grande locale, ma pulita, abitata dalla madre, dalla sorella di Giuseppe, vedova, e dai suoi tre figli. La sorella si lamentò di Giuseppe, che le doveva da anni una forte somma: da «quando era partito in gran fretta da Palermo, ella aveva riscattato per lui certi oggetti impegnati, ma da quel momento non si era fatto più vivo e non le aveva mandato né denaro né sussidi di alcun genere sebbene, a quanto si diceva, possedesse grandi ricchezze e conducesse una vita principesca. Ella chiedeva perciò se potevo prometterle, tornando in patria, di rammentargli con garbo quel debito e ottenere che le concedesse un aiuto finanziario». Gli consegnarono una lettera per Cagliostro e, nel congedarsi, la madre lo pregò di dire al figlio «quanto mi hanno resa felice le notizie che Ella ci ha portato. Gli dica che lo tengo chiuso nel mio cuore così – e a questo punto spalancò le braccia e se le strinse al petto – che ogni giorno nelle mie devozioni prego per lui Dio e la Santa Vergine, che gli mando la mia benedizione, insieme a sua moglie, e che prima di morire vorrei solo che questi occhi, che tante lacrime hanno versato per amor suo, lo potessero rivedere». Lo invitarono a tornare a Palermo per la festa di Santa Rosalia – «gli mostreremo ogni cosa, andremo a sederci nel palco per ammirare meglio il corteo; e come gli piacerà il grande carro e soprattutto la fantastica luminaria!» e, quando fu uscito, «corsero sul balcone della cucina che dava sulla strada, mi chiamarono e mi fecero grandi cenni di saluto». Goethe non li rivedrà più ma mandò poi, di sua tasca, la somma richiesta dalla sorella, 14 once d’oro, e pubblicò un ritratto di Cagliostro nell’opera Der Grosskophta.

Il ritorno in Italia
Intanto Balsamo, in Svizzera, litiga con uno degli ultimi amici rimastigli, il pittore Loutherbourg, che lo accusa di insidiargli la moglie; si guadagna da vivere facendo il guaritore ma l’ambiente della cittadina svizzera è troppo angusto per lui, abituato a ben altri palcoscenici: il 23 luglio 1788 parte con Lorenza per Aix-les-Bains, di qui vanno a Torino ma ne vengono immediatamente espulsi e allora si recano a Genova passando, in settembre, per Venezia, poi per Verona e di qui nei territori imperiali, soggiornando un mese a Rovereto per poi raggiungere la città di Trento il 21 novembre. A Trento è ben accolto dallo stesso principe-vescovo, Pietro Vigilio Thun, ed egli stesso mostrò grande deferenza nei confronti della confessione cattolica; giustificò la sua appartenenza alla Massoneria, spiegando di non averla mai considerata contraria alla fede religiosa e si dichiarò pronto ad andare a Roma, purché munito di salvacondotto. E a Roma, al cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi, il 25 marzo 1789 scrive il vescovo di Trento, sostenendo che Cagliostro si è ravveduto e che la moglie «se ne vive in continui mentali spasimi, ardendo da un canto di costì rivedere il cadente quasi ottuagenario genitore, e dall’altro temendo che l’intollerante consorte non torni, non esaudito, nel pristino disordine, con evidente pericolo di perdervi l’anima». E al vescovo trentino il cardinale rispose il 4 aprile che «non avendo il signor Cagliostro alcun pregiudizio nello Stato Pontificio, non ha Egli bisogno del salvacondotto». Rassicurato da questa lettera e comunque provvisto di un salvacondotto rilasciatogli dal vescovo Thun, oltre che di lettere di raccomandazione indirizzate a cardinali romani, il 17 maggio Cagliostro parte da Trento con Lorenza e dopo dieci giorni sono a Roma. Alloggia dapprima in una locanda di piazza di Spagna e poi presso parenti della moglie a Campo dei Fiori. Se il suo scopo era quello di ottenere un’udienza dal papa, non fu accontentato e si comportò inizialmente con molta prudenza, come sapesse di essere spiato e temesse improvvisi pericoli; pensò anche di tornare in Francia, e a questo scopo indirizzò un Memoriale all’Assemblea francese che fu sequestrato, non appena consegnato alla posta, dalla gendarmeria romana. Avvicinato un giorno da due spie del Governo pontificio, tali Matteo Berardi e Carlo Antonini, che gli chiesero di accoglierli nella Massoneria, Cagliostro, senza sospettare di nulla, fece loro compiere le cerimonie iniziatiche, violando così la norma dello Stato pontificio che vietava, pena la morte, l’organizzazione di società massoniche. I due iniziati, soddisfatti di quanto avevano visto e ascoltato, sparirono prima di versare la quota di adesione. Curiosamente, Cagliostro riuscì ad affiliare alla Massoneria un frate cappuccino, Francesco Giuseppe da San Maurizio.

Arresto, processo e condanna di Cagliostro
In settembre, la moglie Lorenza denunciò Cagliostro al parroco di Santa Caterina della Rota, e la denuncia venne trasmessa il 5 dicembre al Sant’Uffizio: all’ultimo momento, Lorenza si era rifiutata di firmarla, ma venne ugualmente acquisita; il 27 novembre il padre di Lorenza, Giuseppe Feliciani e la spia Carlo Antonini avevano già denunciato Cagliostro. La decisione dell’arresto di Cagliostro – ma furono arrestati anche la moglie e fra’ Giuseppe – fu presa ai massimi livelli, dopo una riunione del papa Pio VI con il Segretario di Stato e altri cardinali: nella notte del 27 dicembre 1789 Cagliostro viene rinchiuso in Castel Sant’Angelo, Lorenza nel convento di Sant’Apollonia a Trastevere e il cappuccino nel convento dell’Ara Coeli. Le imputazioni contro Cagliostro sono gravissime: consistono nell’esercizio dell’attività di massone, di magia, di bestemmie contro Dio, Cristo, la Madonna, i santi, contro i culti della religione cattolica, di lenocinio, di falso, di truffa, di calunnia e di pubblicazione di scritti sediziosi: se provate, comporterebbero la pena di morte. Esse sono fondate in gran parte sulle dichiarazioni della moglie e su scritti e dichiarazioni rilasciate nel corso degli anni da Cagliostro; la linea difensiva dell’avvocato di Balsamo, Carlo Costantini, consiste nel far considerare il suo assistito un semplice ciarlatano, in modo da eliminare tanto ogni credibilità che ogni serietà su quanto Cagliostro avesse mai scritto e sostenuto, relativamente almeno alle sue posizioni ideologiche, che sono quelle considerate di maggiore gravità, dal momento che esse pongono Cagliostro nella posizione di eresiarca; per il resto, occorre far passare Lorenza come una prostituta, una donna immorale e pertanto inattendibile: lei, «moglie, complice impunita e prostituta non può sicuramente somministrare non già una prova, ma nemmeno un indizio per aprire l’inquisizione», dal momento che, secondo la difesa di Balsamo, ella intenderebbe accusare il marito per ricrearsi un’innocenza che non può appartenerle perché, se fosse vero quanto sostiene, anch’ella sarebbe colpevole quanto il marito. Stabilito che gli ordinari rituali massonici sono di per sé suscettibili dell’accusa di eresia, quelli della Massoneria Egizia di Cagliostro sono giudicati certamente eretici e a conferma di questo assunto, negli interrogatori Balsamo viene trascinato in discussioni teologiche: l’ignoranza di Balsamo intorno alle nozioni più elementari di catechismo finisce per aggravare, agli occhi dei giudici del Sant’Uffizio, la sua posizione. Consapevole della situazione disperata in cui si trova, il 14 dicembre 1790 Cagliostro scrive al papa:
«Beatissimo Padre, Giuseppe Balsamo, proteso ai piedi della S. V., reo di essere fondatore di una società massonica (senza però che sapesse che sì fatte società fossero proibite dalla Santa Sede) alla quale società diede una Costituzione non composta da lui, ma cavata da un libro manoscritto che gli venne alle mani in Inghilterra, sotto il nome di Giorgio Cofton, purgato da lui, come credette da tutto ciò che vi era di cattivo, e ben si persuadeva di averlo fatto quanto bastasse perché, data da leggere la detta costituzione al cardinal di Rohan e all’arcivescovo di Bourges, non fu da essi avvertito che vi fosse dentro qualche cosa di male, ma fu soltanto dal secondo consigliato a levarvi le due quarantene per la rigenerazione fisica e morale come due inezie, delle quali due pratiche perciò non ne ha mai fatto uso. Ora, istruito dal P. Contarini che nella costituzione suddetta vi sono cose cattive e contrarie alla S. Fede Cattolica, da lui ritenuta mai sempre fermamente nel cuore, egli le detesta e si protesta disposto ad abiurarle tutte nella maniera che gli sarà imposta dal S. Tribunale, ed a subire quelle pene che merita il suo gravissimo fallo; e pentito di vero cuore ne domanda umilmente perdono al Signore e lo spera dalla sua infinita misericordia, benché se ne riconosca indegno. Indi, rivolto alla Paterna clemenza della Santità Vostra, implora con calde lagrime pietà solamente per l’anima sua, supplicandola di dar rimedio allo scandalo gravissimo da lui dato al Mondo, ancorché questo si debba fare con lo strazio più crudele e pubblico della sua persona. Della Santità Vostra indegnissimo figlio Giuseppe Balsamo peccatore pentito.»

Il 7 aprile 1791 il Sant’Uffizio emise la sentenza:
«Giuseppe Balsamo reo confesso e respettivamente convinto di più delitti, è incorso nelle censure e pene tutte promulgate contro gli eretici formali, dommatizzanti, eresiarchi, maestri e seguaci della magia superstiziosa, come pur nelle censure e pene stabilite tanto nelle Costituzioni Apostoliche di Clemente XII e Benedetto XIV contro quelli che in qualunque modo favoriscono e promuovono le società e conventicole de’ Liberi Muratori, quanto nell’Editto di Segreteria di Stato contro quelli che di ciò si rendano debitori in Roma o in alcun luogo del Dominio Pontificio. A titolo però di grazia speciale, gli si commuta la pena della consegna al braccio secolare nel carcere perpetuo in una qualche fortezza, ove dovrà essere strettamente custodito, senza speranza di grazia. E fatta da lui l’abjura come eretico formale nel luogo della sua attual detenzione, venga assoluto dalle censure, ingiungendogli le dovute salutari penitenze. Il libro manoscritto che ha per titolo Maçonnerie Égyptienne sia solennemente condannato come contenente riti, proposizioni, dottrina e sistema che spiana una larga strada alla sedizione, ed è distruttivo della religion cristiana, superstizioso, blasfemo, empio ed ereticale. E questo libro stesso sia pubblicamente bruciato dal ministro di giustizia insieme cogl’istromenti appartenenti alla medesima setta. Con una nuova Costituzione Apostolica si confermeranno e rimuoveranno non meno le Costituzioni de’ Pontefici Predecessori, quanto anche l’accennato Editto di Segreteria di Stato proibitivi delle Società e Conventicole de’ Liberi Muratori, facendosi nominatamente menzione della Setta Egiziana, e dell’altra volgarmente chiamata degli Illuminati, con stabilirsi contro tutte le più gravi pene corporali e segnatamente quelle degli eretici contro chiunque o si ascriverà o presterà a favore di tali sette.»

Il cappuccino Francesco Giuseppe di San Maurizio è condannato a dieci anni, da scontare nel suo convento dell’Ara Coeli; Lorenza, la cui testimonianza è stata determinante per la condanna di Cagliostro, è assolta: rimase tuttavia per quindici anni nello stesso convento di Sant’Apollonia. Dal 1806 fu la portinaia del Collegio Germanico di piazza Sant’Apollinare, dove morì d’infarto l’11 maggio 1810.

Prigionia e morte
Dopo aver abiurato il 13 aprile 1791, Cagliostro venne trasferito a San Leo, nell’Appennino tosco-romagnolo, per esservi rinchiuso nella storica Rocca (progettata nel XV secolo da Francesco di Giorgio Martini per conto di Federico da Montefeltro). Vi arriva il 20 aprile e l’11 settembre viene trasferito dalla già misera cella cui era stato assegnato, nella peggiore che si fosse potuta ricavare: chiamata il Pozzetto, perché priva di porta – il detenuto fu calato da una botola del soffitto – di dieci metri quadrati, munita di una finestrella appena più larga di una feritoia, con una triplice serie di sbarre da cui si potevano vedere le due chiese di San Leo e a stento un fazzoletto di cielo. Probabilmente per impietosire e acquisirsi la nomea di pentito, mostrò all’inizio della prigionia grande devozione, espressa da continue preghiere e frequenti digiuni: dipinge sul muro immagini religiose e ritrae se stesso, che si batte il petto in segno di contrizione e tiene nell’altra mano un crocefisso; disegna anche una Maddalena in penitenza. Ma iniziò presto a dare segni di instabilità psichica, segnata da violente ribellioni e da crisi mistiche, nella tremenda solitudine di quel buco oscuro ed umido. Il mondo è tutto nella vaga immagine del guardiano che dal soffitto gli cala il cibo due volte al giorno, nel tavolaccio dove sta sdraiato quasi tutte le ore di un giorno che poco o nulla si differenzia dalla notte, nella finestrella a cui a volte si aggrappa e urla una disperazione a cui è negata ogni pietà. Quando ha di questi sfoghi, si materializzano i guardiani dal soffitto per riportarlo alla calma pestandolo. Dalla disperazione all’ebetudine, dalla rabbia all’apatia e alle illusioni: nel dicembre del 1793 ottiene il permesso di scrivere al Papa. Spera di convincerlo del suo pentimento, ma vi scrive di avere visioni che lo fanno ritenere un santo, scelto da Dio perché predichi al mondo la necessità di un generale ravvedimento. Naturalmente, non viene preso sul serio e continua a dipingere, ora immagini devote, ora blasfeme, seguendo le diverse ispirazioni della speranza e della rabbia impotente. Dopo aver abiurato il 13 aprile 1791, Cagliostro venne trasferito a San Leo, nell’Appennino tosco-romagnolo, per esservi rinchiuso nella storica Rocca (progettata nel XV secolo da Francesco di Giorgio Martini per conto di Federico da Montefeltro). Vi arriva il 20 aprile e l’11 settembre viene trasferito dalla già misera cella cui era stato assegnato, nella peggiore che si fosse potuta ricavare: chiamata il Pozzetto, perché priva di porta – il detenuto fu calato da una botola del soffitto – di dieci metri quadrati, munita di una finestrella appena più larga di una feritoia, con una triplice serie di sbarre da cui si potevano vedere le due chiese di San Leo e a stento un fazzoletto di cielo. Probabilmente per impietosire e acquisirsi la nomea di pentito, mostrò all’inizio della prigionia grande devozione, espressa da continue preghiere e frequenti digiuni: dipinge sul muro immagini religiose e ritrae se stesso, che si batte il petto in segno di contrizione e tiene nell’altra mano un crocefisso; disegna anche una Maddalena in penitenza. Ma iniziò presto a dare segni di instabilità psichica, segnata da violente ribellioni e da crisi mistiche, nella tremenda solitudine di quel buco oscuro ed umido. Il mondo è tutto nella vaga immagine del guardiano che dal soffitto gli cala il cibo due volte al giorno, nel tavolaccio dove sta sdraiato quasi tutte le ore di un giorno che poco o nulla si differenzia dalla notte, nella finestrella a cui a volte si aggrappa e urla una disperazione a cui è negata ogni pietà. Quando ha di questi sfoghi, si materializzano i guardiani dal soffitto per riportarlo alla calma pestandolo. Dalla disperazione all’ebetudine, dalla rabbia all’apatia e alle illusioni: nel dicembre del 1793 ottiene il permesso di scrivere al Papa. Spera di convincerlo del suo pentimento, ma vi scrive di avere visioni che lo fanno ritenere un santo, scelto da Dio perché predichi al mondo la necessità di un generale ravvedimento. Naturalmente, non viene preso sul serio e continua a dipingere, ora immagini devote, ora blasfeme, seguendo le diverse ispirazioni della speranza e della rabbia impotente. Solo la morte può liberarlo dal carcere e quella, finalmente, giunge pietosa: il 23 agosto 1795 è trovato semiparalizzato nel suo tavolaccio. Scrive il cappellano della fortezza, fra’ Cristoforo da Cicerchia: «Restò in quello stato apoplettico per tre giorni, ne’ quali sempre apparve ostinato negli errori suoi, non volendo sentir parlare né di penitenza né di confessione. Infine de’ quali tre giorni Dio benedetto giustamente sdegnato contro un empio, che ne aveva arrogantemente violate le sante leggi, lo abbandonò al suo peccato ed in esso miseramente lo lasciò morire; esempio terribile per tutti coloro che si abbandonano alla intemperanza de’ piaceri in questo mondo, e ai deliri della moderna filosofia. La sera del 26 fu tolto dalla sua prigione per ordine de’ suoi superiori, e fu trasportato al ponente della spianata di questa fortezza di S. Leo, ed ivi fu sepolto come un infedele, indegno dei suffragi di Santa Chiesa, a cui non aveva quell’infelice voluto mai credere». Cagliostro morì dunque il 26 agosto 1795, verso le 22.30; fu sepolto senza cassa, nella nuda terra e senza alcuna indicazione, con un fazzoletto sul volto e un sasso sotto la testa, ma del luogo si conservò memoria per qualche tempo: le truppe polacche, alleate dei francesi, che nel dicembre del 1797 conquistarono senza incontrare resistenza la Rocca, liberando i prigionieri, scoprirono anche il cadavere, dandogli forse una più decorosa sepoltura e forse anche conservando qualche reliquia.[senza fonte] Un uomo locale, che aveva assistito da bambino alla tumulazione e alla estumulazione da parte dei mercenari, ci riporta che questi ultimi conservarono il cranio e lo usarono come coppa per bere alcolici. Il suo nome è diventato sinonimo di “avventuriero” e “imbroglione”.[2]

Controversie sulla sua reale identità
Alcune ricerche testimoniano invece la chiara distinzione tra le persone del palermitano Giuseppe Balsamo e del conte Alessandro di Cagliostro, di origine portoghese, e vedono quest’ultimo ricoprire il ruolo di un grande maestro della storia, colui che introdusse il motto Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, divenuto poi il simbolo della rivoluzione francese. La confusione tra i due personaggi fu voluta dai nemici di Cagliostro, in primis l’Inquisizione, che pagarono Balsamo e sua moglie per recitare il ruolo di Cagliostro come un impostore truffaldino e screditarlo così agli occhi del popolo. Ma Cagliostro disse e ripeté sempre: «Io non sono Balsamo». Nessuno ha infatti mai dimostrato che Balsamo e Cagliostro fossero la stessa persona. Cagliostro si pone sulla scia di altre grandi figure che hanno tentato di rivoluzionare la visione delle cose cercando di restituire dignità all’essere umano, come ad esempio Giordano Bruno. Per tale ragione l’Inquisizione fece il possibile per arginare la grande risonanza che il messaggio di Cagliostro stava riscuotendo in Europa, ma invece che scegliere direttamente la via dell’assassinio, che lo avrebbe reso martire alla storia, utilizzò inizialmente la strategia del discredito tramite la figura di Giuseppe Balsamo. Tale discredito sussiste infatti ancora oggi.[3] Disse Cagliostro a proposito di se stesso al Procuratore generale di Parigi nel 1786:
«La verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce. Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza e se mi immergo nel mio pensiero rifacendo il corso degli anni, se proietto il mio spirito verso un modo di vivere lontano da colui che voi percepite, io divento colui che desidero. Partecipando coscientemente all’essere assoluto, regolo la mia azione secondo il meglio che mi circonda. […] Io sono colui che è. Non ho che un padre; diverse circostanze della mia vita mi hanno fatto giungere a questa grande e commovente verità; ma i misteri di questa origine e i rapporti che mi uniscono a questo padre sconosciuto, sono e restano i miei segreti. […] Ma ecco: sono nobile e viandante, io parlo e le vostre anime attente ne riconosceranno le antiche parole, una voce che è in voi e che taceva da molto tempo risponde alla chiamata della mia; io agisco e la pace rinviene nei vostri cuori, la salute nei vostri cuori, la speranza e il coraggio nelle vostre anime. Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti i paesi mi sono cari, io li percorro ovunque, affinché lo Spirito possa discendere da una strada e venire verso di noi. Io non domando ai Re, di cui rispetto la potenza, che l’ospitalità sulle loro terre e, quando questa mi è accordata, passo, facendo attorno a me il più bene possibile: ma non faccio che passare. Sono un nobile viandante? […] Io sono Cagliostro.»

Note
1^ Alessandro Cagliostro, sul Sito ufficiale della Grand Lodge of British Columbia and Yukon.
2^ Cagliostro, Vocabolario Treccani on line.
3^ P. Carpi, Cagliostro: il maestro sconosciuto, Edizioni Mediterranee, Roma 1997.

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Written by Vicky Ledia

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